Pantagruel aveva un corpo simile a un capitello,
la testa un tutt’uno con il tronco. La sua pelle era liscia e rossicia come
quella di un polipo, e soffriva. Amava i fiori, gli uccellini, le storie
d’amore e d’avventura, gli uomini e il loro sapore. Sì, avete capito bene: era
un mostro buono e gentile, nonostante il suo istinto gli imponesse di cibarsi
soltanto di deliziosi e freschi contadini, golosi cacciatori dal forte sapore
di selvaggina o magari di quei cavalieri così stuzzicanti, dei quali
amava succhiare via il corpo dall’armatura come fossero una cozza
succulenta.
Come potrete immaginare, per questo motivo
Pantagruel non era molto amato dagli abitanti della città di Cettardo. “Il
mostro!”, gridavano impauriti i villici non appena usciva inesorabilmente
affamato dalle frasche, con dei lacrimoni amari che gli scendevano giù dalle
guancione carnose. “Mi scusi tanto, ma lei è buonissimo!”, riusciva a grugnire
piangendo alle proprie vittime, giusto un attimo prima di papparsele.
A niente valevano i suoi sforzi per cercare di
farsi accettare. Nonostante grazie al suo animo nobile e sensibilissimo
avesse scritto alcune bellissime poesie, le quali avevano impressionato persino
il grande Scrittore cittadino, Messer Boccuccia, per poco una volta non rischiò
di divorarsi egli stesso! L’insigne uomo di lettere si salvò solo grazie
all’eroico e involontario sacrificio contemporaneo di tre falegnami, un
capomastro, un messo comunale e un paio di pensionati che passavano di lì per
caso; ma questa, ne converrete, è un’altra storia.
Infatti, tutto cambiò il giorno in cui Shemek,
Shesbek, Alamelek e Franco, zingari erranti conclamati...